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Il corpo al centro del discorso Covid-19

“Viviamo strani giorni”, cantava Battiato nel 1996. Certo non poteva immaginare quelli che ci sarebbe toccato vivere quasi venticinque anni dopo. Forse nemmeno Kubrick o Hitchcock avrebbero saputo scrivere il soggetto di un film come quello che alle volte ci sembra di vivere: un nemico invisibile, capace di passare subdolamente da una persona all’altra, infettandole.

La salvezza? Stare lontani, applicare la cosiddetta distanza sociale, fino all’isolamento.

Abbiamo vissuto, e forse stiamo ancora vivendo, momenti di sconcerto: un mix di incredulità, stupore, confusione e sperdimento. Per contrastare l’espandersi di questa pandemia ci è stato domandato di impegnarci, di comportarci responsabilmente; lo slogan che riassume la richiesta è #iorestoacasa. Ma i giorni passano, e in qualche modo dobbiamo pur cercare di riacquisire una certa lucidità. A tale scopo, proviamo qui a suggerire alcuni spunti di riflessione circa la condizione che stiamo vivendo. Il discorso Covid-19 riguarda primariamente due grandi dimensioni dell’umano: il corpo e la socialità.

Quando parliamo di corpo spesso lo facciamo oggettivandolo; ne parliamo, cioè, in terza persona. In medicina, questa prospettiva la fa da padrona, ed essendo questi giorni immersi più che mai in un’atmosfera medicalizzata, il rischio è quello di pensare al corpo soltanto come a un oggetto, come al corpo che ho.
Ma davvero il nostro corpo è soltanto questo, unicamente l’oggetto dell’analisi medica, la mera struttura che può essere attaccata da un virus? No, anzi. La specificità del nostro corpo è che può essere, sì, un corpo-oggetto, essendo primariamente un corpo-soggetto, il corpo che sono. Dalla terza persona si passa quindi in prima persona.

Potremmo dire perciò che il corpo è un fenomeno doppio, che apre all’esistenza in quanto soggetto (io sono) ma che è sempre sul punto di farsi oggetto (io ho). Abitualmente non siamo portati a pensare in questi termini: nella quotidianità, questi “due corpi” si compenetrano l’un l’altro e rimangono ammantati dall’ovvietà stessa dell’esistenza (quando questo rapporto si disarticola, si entra nel mondo delle gravi patologie mentali).
Anche a livello linguistico, il sostantivo utilizzato è sempre lo stesso, sia per il soggetto che per l’oggetto: corpo. Molti filosofi hanno profuso sforzi per cercare di descrivere questa duplicità; uno dei più importanti del secolo scorso, Edmund Husserl, utilizzando la lingua tedesca, parlava di Körper, il corpo-oggetto, e di Leib, il corpo-soggetto, quello che sono, un corpo vivente, patico, che poneva alla base dell’intersoggettività, quella capacità di fare esperienza dell’altro come mio simile, con cui condivido lo stesso orizzonte.

Oggi c’è il Körper al centro del discorso Covid-19: un corpo che può essere attaccato, che può essere contagiato, che va difeso, che va distanziato. Ma è proprio in questi momenti che non possiamo dimenticarci del Leib, che va riportato al centro del dibattito: un corpo vivo, emozionato, pervaso oggi da angoscia, ansia verso il futuro, disperazione. Un corpo che sta facendo esperienza di una condizione che forse mai aveva sperimentato prima d’ora: la distanza dal corpo dell’altro, l’assenza del corpo dell’altro. E seguendo le orme del filosofo Merleau-Ponty, diremmo che questa mancanza che avvertiamo nel toccare l’altro, nell’abbracciarlo, nel sentire il contatto tra la sua e la mia carne, porta alla luce la natura originaria di una intersoggettività che è prima di tutto intercorporeità, dimensione costitutiva dell’essere umano che ci permette di risuonare con il corpo dell’altro, in un intreccio di relazioni che chiamiamo mondo. 

Luca Di Bernardo

 

*Note sull’autore: Psicologo, Psicoterapeuta a orientamento fenomenologico-dinamico. Lavora privatamente a Pescara con adolescenti e adulti, coppie e gruppi. Collabora con vari enti e associazioni sul territorio per la promozione e la tutela della salute mentale. Dal 2017 collabora con Psy+ Onlus, in cui ricopre il ruolo di referente della sede operativa di Pescara.





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