Le scelte di un genitore migrante - educare i figli come in patria?

Come si è discusso in un precedente articolo in questo blog, crescere un figlio lontano dal proprio paese di origine è una sfida che si aggiunge alla già ampia lista di difficoltà e rivoluzioni che si presentano al diventare madri o padri. In questo articolo parleremo di uno dei dilemmi più comuni per un genitore all’estero: le scelte educative.
Ogni cultura ha infatti un suo modo di crescere i bambini. Un neo-genitore può vivere in maniera traumatica la lontananza dai riferimenti della propria cultura, sentirsi isolato e incerto sulle scelte da prendere, ma può comunque trovare delle alternative. È il caso, ad esempio, di chi vive a contatto con le comunità migranti, piccoli grandi riproduttori della cultura d’origine dove le nuove famiglie trovano i riferimenti classici legati all’appartenenza religiosa, al cibo o all’educazione scolastica. Sono molti i fattori che possono aiutare o ostacolare i genitori migranti a riprodurre alcune pratiche nella vita quotidiana con i loro figli. Sicuramente anche lo sviluppo della comunicazione e dei social media giocano un ruolo fondamentale nell’interazione online con la famiglia allargata.
Lo psicologo sociale John Berry aveva ipotizzato quattro modi di interagire con la società ospitante, a seconda del grado di interazione con quest’ultima e di quanto si decidesse mantenere delle proprie tradizioni. Delineava quattro profili:
- separazione
- assimilazione
- marginalizzazione
- integrazione.
Si è potuto notare però che queste categorie devono ridursi a ambiti specifici della vita sociale e privata piuttosto che “etichettare” i migranti in toto, in quanto alcune famiglie potrebbero mostrarsi restie a prendere parte ad alcune pratiche del paese d’immigrazione ma preferirne altre e viceversa. Un’indagine condotta con un gruppo di madri migranti a Londra tra gennaio e febbraio del 2020, conferma questa seconda ipotesi. Ad esempio per Eva, della Repubblica Ceca, il metodo inglese di favorire l’indipendenza e avere la possibilità di inserire i bambini al nido fin dai primi mesi di vita, piace molto. Nel suo paese, il congedo di maternità può durare fino a 4 anni e la norma è che quasi nessun bambino vada a scuola o al nido prima dei 2 o 3 anni. D’altro canto, mentre nel suo paese esiste l’obbligo vaccinale, non è così nel Regno Unito.
Il tema della sicurezza e dell’approccio alla salute è sicuramente uno dei punti chiave delle differenze tra i vari paesi. Per Nina, bulgara, le differenze sono positive, ad esempio i medici britannici tendono a non prescrivere tanti antibiotici ai bambini come nel suo paese, e la gente in generale non imbacucca i figli in inverno, differenza riscontrata anche da Birgit, proveniente dalla Germania. Entrambe approvano e preferiscono le modalità utilizzate in Regno Unito.
Per Shanika, nata e cresciuta in Jamaica, vivere a Londra come madre è particolarmente traumatico in relazione al senso di comunità. Nel suo paese, sostiene, tutti tendono a prendersi cura dei bambini di tutti, che in questo modo si comportano meglio e fanno sentire le famiglie in generale più sicure. Anche Mide, nigeriana, ha la stessa sensazione, “nel mio paese chiamavo tutti zia o zio per poi scoprire che non erano miei parenti, ma non ho mai sentito la differenza perché mi trattavano come se lo fossero”.
Come si evidenzia da questi dati, i genitori migranti sono sottoposti a un duplice processo di acquisizione di ruolo e regole sulla genitorialità e la cura dei figli. A seconda del loro grado di mantenimento dei legami con la cultura d’origine, e l’accesso alla cultura e le usanze di quella del paese d’adozione, possono trovare più o meno difficile integrare approcci a volte molto diversi, ma in nessun caso è possibile tracciare una linea netta e posizionare le scelte in una sola categoria. È forse proprio questa la ricchezza che ogni figlio di seconda generazione conosce molto bene e che è parte fondante della sua normalità, sapere non di essere “né l’uno né l’altro”, ma entrambe le culture e tutte le altre che abbraccerà nel suo futuro. Una sfida importantissima per i genitori che, se affrontata con consapevolezza e apertura, può regalare all’intera famiglia un’esperienza sana di diversità e costruzione del sé.
Valeria Giannuzzi
Riferimenti:
- Berry, J. W. (1990). Psychology of acculturation. In J. J. Berman (Ed.), Current theory and research in motivation, Vol. 37. Nebraska Symposium on Motivation, 1989: Cross-cultural perspectives (p. 201–234). University of Nebraska Press
*Note sull'autrice: Valeria Giannuzzi è Psicologa Clinica e Dottore di Ricerca in Scienze Sociali con Specializzazione in Studi Migratori. E' tra i soci fondatori di PsyPlus Onlus, con la quale attualmente collabora a distanza. Fondatrice e direttrice di The Hug Support Group, si occupa attualmente della salute mentale e del supporto alla genitorialità delle famiglie nel quartiere multietnico di Barking, Londra.
**Si ringraziano le madri intervistate per la loro disponibilità.