Di padri e madri, di figli e figlie
Prendi un padre. Mettici un cuore grande, una diagnosi che pesa anche solo a sentirla nominare, le voci e l’alcool. Sommaci un lutto, poi un’altra perdita, poi una, due rotture, una fuga e la resa. Aggiungi un figlio, poi un altro e un’altra ancora. Mettici una donna che perde l’amore, ma che non si arrende e non si fa da parte. Poi mettici la frammentazione: persone che si disperdono. Un gruppo che si disgrega, un nucleo che si allontana.
Qualcuno ritrova la sua strada, qualcun altro fa fatica a scorgere il suo posto nel mondo. Mi chiedo poi se ce ne sia uno solo o se non siano, invece, più posti mutevoli. Alcune persone nelle loro giovani vite sembrano aver vissuto mille epoche in mille luoghi. Altre son rimaste a guardare, altre ancora tenevano lo sguardo altrove, forse per loro fortuna [sono gli ignavi e le ignave, che nella loro vita non si sono mai schierati, che non hanno mai osato, che son rimasti immobili. Quelli e quelle che Dante, per la legge del contrappasso, fa girare per l’eternità attorno a una bandiera bianca (baluardo della loro cecità), punti da vespe e mosconi, quasi per pungerli e scuoterli dalla loro indifferenza].
Non è vero che il dolore ti rende una persona migliore. Alcune se lo sarebbero sinceramente risparmiato, pur di non doversi ritrovare a badare a qualcun altro troppo precocemente. Giovani caregiver, si chiamano ora. Aggiungerei anche caregiver bianchi: quelli che non hanno neanche una diagnosi a cui appigliarsi, ma che hanno sempre vissuto, a volte anche inermi, qualcosa che si discostava dalle vite glitterate (?) degli altri. Qualcosa di indefinito, ma che gli faceva capire che la loro non era una famiglia canonicamente intesa, una famiglia tra le righe. Figlie e figli di madri e padri forse troppo fragili o forse troppo forti, dipende da che punto scegliete di guardarli/e.
“Non sarò il primo né l’ultimo ad avere un padre con questi problemi”, mi disse un giorno uno di loro (uno di loro, uno di noi – dipende da che parte lo si scelga di guardare - o semplicemente “uno”).
È un esercito sconquassato e resistente di figlie e figli alle prese con un dilemma: mollare o insistere? Un esercito, sì, un esercito che lotta in un campo di battaglia, ma non contro un padre o una madre, una malattia mentale, un brutto periodo di vita, un trauma, una perdita, no, non è una guerriglia contro tutto questo, ma contro lo stigma. Una lotta per un padre, una madre, un fratello, una sorella e contro il pregiudizio e lo stereotipo. Perché quando sei ancora troppo giovane per queste cose non sai come parlarne, prima ancora di chiedere un aiuto che molto probabilmente non arriverà così facilmente. Perché la salute mentale, la casa e tutte quelle sicurezze che per molti e molte sembrano certe e scontate (con s- sottrattivo, dal latino ex [togliere] - computare [conteggiare]: che vale meno), altrove vanno rincorse, create, inventate. E no, non è facile condividere la strada per la risalita, perché è piena di dossi. Si cade e ci si rialza e non sempre il tragitto ha un lieto fine. A volte si è soli e sole e non c’è nessuno a tendere veramente la mano per farti rialzare. Ti arrangi.
E allora, quando il lieto fine stenta ad arrivare, devi adattarti e far fronte all’onda che ti ha travolto o che da troppi anni si infrange sui tuoi scogli. Qualcuno si indigna davanti a un figlio o una figlia che tira i remi in barca o che scappa. Probabilmente è quel qualcuno che anche solo a sentire certe storie si perde in una nuvola senza carattere, fatta di stereotipi, pregiudizi e superficialità. Sono gli ignavi e le ignave di Dante e sono anche quelli e quelle che etichettano: “hai sentito coso? Ha il disturbo xy e prende gli psicofarmaci. Eh, ma si vede che non sta bene, se continua così si farà odiare da tutti”. Una platea giudicante che sentenzia così come faceva il popolo qualche secolo fa sugli eretici e sulle eretiche, mettendoli al rogo.
La scorsa sera mi sono imbattuta in un uomo un po’ spaesato e solo. “Sono schizofrenico”, mi dice, “prendo le gocce”. Scopro che le sue sorelle cercano di evitarlo e la mamma è in preda allo sconforto. “Mettetelo in un manicomio e non fatelo più uscire”, mi dice inizialmente. Rimango spiazzata. Inizialmente mi irrito, ma poi capisco. E lei poi piange, mi dice che il figlio non frequenta più il centro diurno, che fa continuamente fughe da casa e che poi lo trovano e ritorna. È esasperata. “Non ce la faccio più a occuparmi di lui”, mi dice. E così anche le sue sorelle. E le sue nipoti. Hanno problemi di salute e di natura economica e stargli dietro è troppo impegnativo per loro. Mi sono allora chiesta quanto sia giusto che lui viva ancora con la madre. Una donna che è prigioniera anche lei della malattia del figlio. Mi chiedo se non arrivi un momento in cui anche i genitori non abbiano il diritto di riprendersi i loro spazi. Forse il figlio potrebbe essere inserito in un gruppo appartamento. Seguito da chi ha più forza di sua madre per occuparsi di lui.
Un’altra storia. Tempo fa ho incontrato questa persona. Giovane, preda dell’alcool e invecchiato da troppi anni in strada. “Vorrei rivedere mia figlia”. E se lei non volesse? “Sono sicuro che lei vorrà rivedermi e che si chiede dove sia il padre”. Non l’ha riconosciuta alla nascita, dice che glielo consigliò la compagna. “Non porta il mio cognome, ma io so dov’è la madre”. E se lei non volesse vederlo? Entrerebbe a gamba tesa nella sua vita di adolescente e rischierebbe di farle un doppio danno: una rivelazione forzata dopo un abbandono. E se invece lei volesse vederlo? Se lei lo stesse cercando? “Non potrei farmi vedere così, mi servirebbero dei vestiti puliti”. Ecco, queste sono le storie delle persone che vedete sedute su un marciapiede.
Ancora un’altra storia, invece, ma dai ruoli inversi. Una figlia che non riesce a prendersi cura del padre. Un padre amorevole, ma con un ingombrante disturbo di personalità che nel tempo l’ha portato a una resistenza alle cure e lei alla fine ha desistito. “Mio papà sta male, ma non solo fisicamente”. Inizialmente mi chiedo cosa porti a lasciare una persona in quelle condizioni, ma poi anche lì capisco. Gestire un papà amorevole, ma testardo è dura. Non ti ascolta, non si fa aiutare, peggiora e non ti resta che vederlo perdurare in questa lotta per la sopravvivenza che sopravvivenza non è. E magari si sente pure sola nel cercare di aiutare il padre.
Ma d’altronde pensiamo alle classiche vuote domande che taluni e talune esclamano davanti alla depressione: “basta volerlo!”, “reagisci!”, “dovresti fare sport”, “aiutati che Dio t’aiuta”, “alzati e esci, c’è il sole!”, “non ha voglia di reagire”, “è solo questione di forza di volontà”, “ma quello è pazzo, non dargli retta”, “sì, ma lei è matta, non ci sta con la testa”. Il dolore psichico non viene visto come una sbucciatura al ginocchio o un osso rotto. Non si vede, dunque non esiste.
Ma non c’è solo la malattia psichiatrica
Per il mio lavoro mi trovo spesso a notare come il trauma si tramanda attraverso una linea transgenerazionale. Un fil rouge che attraversa le generazioni. L’ereditarietà del trauma si annida nei legami. E sotto a tante storie che portano al dolore psichico e alla strada, ci sono traumi che rimangono spesso sottotraccia.
«Le esperienze traumatiche lasciano tracce sia su larga scala (nella storia e nella cultura) sia nella quotidianità, all’interno delle nostre famiglie. Lasciano tracce anche nella mente e nelle emozioni, nella nostra capacità di provare gioia e di entrare in intimità e, persino, nella biologia e nel sistema immunitario. Il trauma colpisce non solo chi ne è direttamente interessato, ma anche i suoi cari» (van der Kolk, p. 31).
Dal trauma non si guarisce, lo si può solo curare. Prendersene cura. Elaborarlo e sistemarlo da qualche parte, in qualche modo.
Questo è un passaggio importante: non dobbiamo edulcorare le storie difficili. Non dobbiamo normalizzare. La società normotica punta a scansare il dolore e tutto quello che fa riflettere. Noi dobbiamo starci negli affetti e nei pensieri. Dobbiamo starci se non vogliamo essere quegli ignavi e quelle ignave che si voltano dall’altra parte. Solamente così riusciremo a guardarci e a guardare l’altro/a. Solo così potremo prenderci cura delle storie difficili; solo così potremo trovare quella virtualità sana (Badaracco, 20072) per guardarle, queste storie difficili, ma senza pietismo o compassione misericordiosa, bensì con partecipazione, empatia e autenticità.
A separare le storie complicate da quelle ammodo, a volte, è solo questione della direzione del vento.
Giovanna Teti
BIBLIOGRAFIA:
Badaracco, J G. (2007). La virtualità sana nella psicosi. Interazioni, 16 – 24, Franco Angeli.
Van Der Kolk, B. 2015. Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015.
*Note sull'autrice: Giovanna Teti è psicologa, psicoterapeuta ed esperta in psicodiagnostica. Ha inizialmente lavorato nei Servizi territoriali per adulti e con l’età evolutiva, per poi dedicarsi al settore della psicologia ospedaliera. Da diversi anni si occupa di adozioni e attualmente è referente per la sede di Roma del Servizio Regionale per le Adozioni Internazionali. Da alcuni anni lavora con le persone senza dimora come operatrice di strada per il Comune di Roma. Socia di PsyPlus dal 2021, attualmente si sta dedicando allo sviluppo dell’Area dedicata all’Inclusione sociale e al contrasto alla grave emarginazione adulta con l'obiettivo di realizzare progetti di Housing First nelle città di Roma e Pescara.
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